Resilienza e professioni sanitarie

La recente tempesta pandemica  recente tempesta pandemica Covid-19 ha sconvolto molte situazioni, sia sul piano sociale che su quello personale. La resilienza, che da sempre è una risorsa preziosa nella vita e sul lavoro, improvvisamente è balzata in primo piano: abbiamo tutti avuto la netta sensazione che ne avevamo un bisogno disperato.

Infatti, molti hanno dovuto affrontare ciò che non era prevedibile e gestire in modo diverso le attività quotidiane e lavorative, facendo appello a tutte le risorse disponibili (e trovandone anche di nuove) per rimanere in salute, adattarsi, e continuare ad agire.
Nell’ambiente di lavoro è stato indispensabile trovare un modo sostenibile per coniugare le performance e l’efficacia dei dipendenti con la loro sicurezza e un sufficiente livello di benessere durante tutto il periodo del lockdown e, successivamente, nella fase di ripartenza. Le persone, a tutti i livelli, hanno dovuto rivedere le proprie abitudini, cercando di tenere sotto controllo la negatività e mantenendo l’attenzione sulla barra del timone.

Come alcuni di voi ricordano, ho su queste pagine aperto una riflessione sul ruolo e sulla natura della resilienza sul lavoro, facendo riferimento al modello olistico recentemente sviluppato da Kathryn McEwen, autrice di uno studio magistrale che ci permette di valorizzare e coltivare la Resilienza sul Lavoro (R@W) individuale, di team e dei leader.

In questo articolo voglio fare un tentativo: applicare questo modello al contesto lavorativo degli operatori e dei professionisti della sanità che hanno attinto in modo speciale alle proprie risorse di resilienza. Farò dunque un breve viaggio nella resilienza sul lavoro di queste persone che tanto sono state esposte sul piano umano e professionale.

Medici, infermieri, tecnici e tutti gli operatori che improvvisamente sono stati catapultati in una realtà incredibile e avversa; professionisti che qualcuno ha definito “eroi”, e che noi preferiamo pensare come (più o meno) resilienti.

Sono persone, queste, che apprezziamo perché hanno scelto una professione dedicata all’aiuto e al servizio, anche se in ambiti operativi assai diversi (pronto soccorso, rianimazione e cure intensive, piuttosto che domiciliare o medicina generale, tanto per ricordare alcune realtà). Competenza, esperienza, dedizione al lavoro per ottenere “una buona cura”. Queste persone si sono trovate sole nei momenti più difficili e dolorosi della pandemia. Principale compagno di viaggio: la resilienza personale che ha caratterizzato la loro capacità di tenuta e di risposta in tempi difficili. 

 Ma quale lente di ingrandimento possiamo usare per comprendere la resilienza sul lavoro di questi professionisti in “prima linea”?

La ricerca svolta da Kathryn McEwen, psicologa e consulente organizzativa di cui ho portato il lavoro in Italia, e oggi una delle voci più autorevoli in tema di resilienza sul lavoro, ci offre gli strumenti per leggere e comprendere le diverse storie di resilienza di questi professionisti. La resilienza sul lavoro, secondo questa ricerca, non è un tratto, ma uno stato in continua evoluzione in cui energie e tattiche si “aggiornano” molto spesso inconsapevolmente.

Più in particolare, la resilienza individuale è composta da sette componenti che sono ambiti dai quali noi traiamo le energie e le competenze per affrontare le difficoltà, adattarci e rialzarci dalle battute d’arresto mantenendo la prospettiva verso il futuro (la definizione di Kathryn McEwen). In tempi di normalità queste sette componenti
(che di seguito esamineremo) che concorrono allo stato di resilienza individuale sono in continua evoluzione e ci consentono di convivere adattivamente e proattivamente con i cambiamenti quotidiani.

Le sette componenti della resilienza sono il nostro bagaglio di energie e competenze e possono avere una intensità diversa nel tempo, e soprattutto possono essere più o meno funzionali in ragione dei contesti di vita e di lavoro. In linea con questa scoperta, la persona è resiliente in quanto è capace di comprendere il proprio stato di resilienza in un determinato momento e in relazione al contesto, e agisce consapevolmente per ri-settare o rinforzare il sistema delle componenti.

In tempi difficili, infatti, il gioco degli equilibri tra le componenti diventa più delicato, e possiamo accorgerci che non è adeguato alla nuova realtà. Questo ci rende più esposti e inefficaci, almeno momentaneamente, a meno che non corriamo ai ripari in modo intenzionale.

Non ho qui la pretesa di spiegare quello che è successo a chi ha affrontato la pandemia “in prima linea” in modo più o meno resiliente. Di formazione psicologo clinico, so bene che ogni caso è a sé e che non si possono dare ricette in alcun modo! Inoltre non abbiamo in questo caso la possibilità di misurare quanto diciamo, cosa che invece sarebbe possibile se avessimo fatto un assessment della resilienza dei professionisti attraverso il R@W (Resilience at Work Scale) di cui disponiamo. Viceversa, intendo condividere delle riflessioni guidate su quanto può avere accomunato i professionisti “in prima linea” applicando il modello di Kathryn McEwen, che ci servirà per comprendere meglio come la resilienza sul lavoro abbia giocato un ruolo essenziale sul piano individuale. Non entro qui in ragionamenti sulla resilienza dei team e dei leader a cui potrei dedicare una trattazione specifica.Per fare questo, seguirò lo schema delle sette componenti che sono parte costitutiva della resilienza sul lavoro secondo il modello di Kathryn McEwen che trovo particolarmente valido.

 Lo stato di salute fisica è di per sé un pilastro fondamentale della resilienza. Se non “sei in forma” è difficile che tu possa dare aiuto in modo efficace. O, quanto meno, il sistema resilienza può essere mantenuto in equilibrio provvisorio e con maggiore dispendio di energie. I professionisti della salute, hanno dovuto convivere con una situazione molto esposta, innanzitutto ai rischi del contagio da coronavirus, soprattutto nei momenti iniziali in cui poco si sapeva e non esistevano indicazioni certe per contrastarlo. Hanno, inoltre, lavorato senza sosta e senza riposo…spesso trascurando di alimentarsi regolarmente, e di riposare, soprattutto quelli in prima linea. Le immagini che hanno fatto il giro del mondo dell’operatore esausto che si abbandona sulla postazione di lavoro sono solo l’iceberg di quanto è successo a molti.

Vivere autenticamente, è una componente che si trova idealmente al polo opposto nella sistematizzazione di Kathryn McEwen. La resilienza attinge al mondo interno dei valori che ciascuno possiede, valori che costituiscono una sorta di porto sicuro dal quale partire e al quale ritornare nei momenti difficili. Ci immaginiamo quanto gli operatori della sanità abbiano visto minacciati alcuni valori e forse anche, in alcuni casi, abbiano dovuto scendere a compromessi sul piano pratico e operativo. Avere delle ancore comunque aiuta, così come aiuta anche la consapevolezza nelle proprie capacità e la capacità di mantenere una buona regolazione dello stato emotivo, al di là dei momenti legittimi di sconforto. E questo costituisce la dimensione spirituale ed Anche in questo caso abbiamo in mente situazioni personali molto diverse..

Trovare la propria strada. Questo terzo elemento della resilienza descritto da Kathryn McEwen, ci parla dell’importanza di combinare i valori, le aspettative e le capacità emotive del professionista con la natura del compito che è chiamato a svolgere. Quando il fit è alto, il professionista si riconosce in quello che fa (appartenenza e “ingaggio”). Viceversa, si ingenera un sentimento di distacco e di minore impegno. Possiamo ritenere come questa dimensione abbia contato a livello individuale, influendo sul livello di resilienza complessivo. In molti casi, i professionisti hanno aumentato considerevolmente le proprie energie quando hanno potuto percepire l’utilità e il valore di quanto stavano facendo. In altri casi, il distacco tra il proprio mondo di valori e l’operatività richiesta o la realtà esistente è stato grande… e le persone hanno trovato difficile continuare a dare un senso pieno a quanto accadeva e stavano facendo. 

 Mantenere la prospettiva è la dimensione dell’adattabilità e della flessibilità! Non sempre le cose vanno come vorremmo, e nei momenti avversi è importante ri-considerare i propri schemi mentali, almeno provvisoriamente, per concentrarsi sulla soluzione dei problemi del presente. Questo talora non è facile, perché di fronte alla minaccia incombente ci riesce difficile filtrare la negatività (anche quella degli altri), e non sempre riusciamo a “vedere” che c’è comunque la possibilità di fare bene e di imparare…Ho in mente reparti la cui organizzazione è stata rivista in tempi molto brevi e in cui le persone hanno “fatto un mestiere diverso” da quello abituale da un giorno all’altro, dando contributi di grande qualità a volte inaspettati. In altri casi, questo non è successo, per una questione di rigidità o di approccio negativo.

Governare lo stress è innanzitutto la capacità di cambiare le routine personali e organizzative, per crearne di nuove (abbiamo bisogno di tenere la nuova situazione sotto controllo!). Per mia esperienza, chi ha saputo concentrarsi sulle nuove priorità e ha lasciato il resto sullo sfondo, è riuscito a tenersi in maggiore equilibrio e in relativa armonia con se stesso. Altro aspetto fondamentale è la regolazione continua dell’equilibrio vita-lavoro. Questo è già difficile in tempi di “normalità”, figuriamoci quando la pressione è a mille! L’essenziale è non farsi travolgere dal coinvolgimento emotivo del compito, non farsi inghiottire dal vortice dell’emergenza continua. Altrimenti il prezzo è il conflitto con se stesso, con i colleghi e con le persone care. Ne sanno qualcosa anche le famiglie dei professionisti che hanno vissuto la tempesta da spettatori partecipi di un cambio improvviso che rischiava di mandare all’aria l’armonia…

Interagire co-operativamente. E’, questa, la dimensione relazionale della resilienza che ci evidenzia quanto possa essere utile comunicare con gli altri, senza isolarsi. Di solito accade che nel momento di difficoltà si evita di chiedere, e si vuole far velo alle proprie fragilità. Gli studi di Kathryn McEwen dimostrano che chiedere aiuto aiuta, ma anche dare aiuto aiuta perché si mantiene vivo il rapporto in termini di feedback supportivo. Questa energia si può trarre dai colleghi, ma anche dai propri familiari. Più difficile dai pazienti (anche se abbiamo in mente come sono state celebrate le piccole/grandi vittorie contro il coronavirus!; l’importanza della gratitudine…). Ho incontrato molti professionisti concentrati nel dare aiuto, ma spesso restii nel chiederlo. Sono state spesso situazioni in cui il professionista è concentrato nel fare e nel risolvere, impegnato a gestire al proprio interno l’ansia o il dolore indicibile di certi momenti. Ma anche questo atteggiamento, assolutamente comprensibile, può avere un costo molto alto in termini di resilienza.

Costruire network. Può sembrare una dimensione poco pertinente con la resilienza sul lavoro, ma non è così! Pensate a quanto può essere stato importante trovare uno scambio di opinioni con una collega, oppure con un parente o un vicino di casa…Un’osservazione, un’idea, un suggerimento pratico che aiuta il professionista a trovare ciò di cui si sente carente o di cui non dispone (informazioni, risorse, supporto pratico), o addirittura a trovare nuovi equilibri. Costruire network personali e professionali aiuta chi aiuta in tempi difficili più di quanto si possa pensare…non solo dal punto di vista del supporto emotivo ma anche dell’approccio cognitivo e pratico alla soluzione dei problemi di casa e sul lavoro.

 Ho voluto intraprendere questo breve viaggio con voi per celebrare i professionisti “in prima linea” e al contempo discorrere del modello della Resilienza sul Lavoro (R@W©) di Kathryn McEwen, che ho portato in Italia e che utilizzo nel mio lavoro di coach e di formatore per aiutare le persone a comprendere e a coltivare la propria resilienza anche in tempi normali (che sono comunque “difficili”).

Mi ripropongo di tornare su questo argomento, per ulteriori approfondimenti.

Intanto vi ringrazio per l’attenzione.

Grazie per le vostre reazioni, 

Guido Prato Previde, Business Psychologist